sabato 27 agosto 2016

18 Informazioni sulla dhimmitudine

 

La dhimmitudine era un’istituzione esclusivamente islamica che definiva una classe speciale di cittadini. Si trattava della posizione subordinata di un popolo sottomesso al dominio islamico nelle sue proprie terre. Questa situazione si verificò in tutto il mondo islamico fino alla sua conquista da parte delle nazioni occidentali (cristiane). Sfortunatamente, la condizione di dhimmi non è solo una mera istituzione, ma un tipo di mentalità sottomessa simile a quella delle vittime di bullismo e minacce. I profili dominanti sanno perfettamente che imporre una predisposizione mentale di questo tipo alle loro vittime è fondamentale per poterle tenere sotto totale controllo senza eccessive complicazioni.
Molti di noi siamo testimoni di tragici casi di donne vittime per anni di violenze fisiche e psicologiche inflitte loro dai propri mariti. Spesso, queste giustificano le azioni dell’aggressore e se ne attribuiscono la colpa (”Se non avessi servito la cena così tardi, non mi avrebbe picchiata”).
I tiranni sono maestri nell’impiegare questa strategia di sottomissione e proprio per questo è arduo deporli. Maometto incluse questo metodo coercitivo nella sua dottrina in modo da impedire che i dhimmi dei territori conquistati dall’Islam potessero ribellarsi. E infatti, nessuna società conquistata dall’Islam si è potuta liberare senza un aiuto esterno.

Lasciate che lo ripeta:

Storicamente, NESSUNA SOCIETÀ CONQUISTATA DALL’ISLAM SI È POTUTA LIBERARE SENZA UN AIUTO ESTERNO.



M. Lal Goel, professore emerito (hindu) in Scienze Politiche13, scrive a proposito dell’istituzione islamica della dhimmitudine:

La dhimmitudine è lo stato di paura e insicurezza in cui vivono gli infedeli, costretti ad accettare una condizione di umiliazione. È caratterizzata dal fatto che la vittima stia dalla parte dell’oppressore, assumendosi la colpa del comportamento ripugnante di quest’ultimo. Il dhimmi perde quindi la capacità di ribellarsi poiché questa nasce dal senso di ingiustizia. Odia sé stesso per elogiare il suo oppressore. Per i dhimmi vigevano circa venti divieti: non potevano costruire luoghi di culto, far suonare le campane delle chiese o uscire in processione, cavalcare cavalli o cammelli (gli asini sì), sposare donne musulmane, indossare capi di abbigliamento abbelliti da ornamenti, possedere schiavi musulmani o deporre contro un musulmano in tribunale.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, quando l’Impero ottomano (turco) fu sconfitto, l’istituzione della dhimmitudine fu apparentemente abolita. Sfortunatamente, essa perdura come condizione mentale e aumenta costantemente a livello mondiale, dal momento che la gente si sottomette spiritualmente ed emotivamente alla superiorità islamica.

Per esempio, nel 2006, il Papa fece il suo noto discorso di Ratisbona, nel quale citò un imperatore bizantino che disse che l’Islam aveva portato al mondo solamente violenza. Il Papa non condivideva questo punto di vista, lo utilizzò semplicemente come esempio in una questione teologica piuttosto astratta.

I musulmani di tutto il mondo iniziarono immediatamente a protestare. In Inghilterra, assalirono i frequentatori delle chiese, ma altrove le cose andarono molto peggio. Gli attacchi ai cristiani da parte dei musulmani aumentarono e una suora impegnata in attività umanitarie (per i musulmani) in Somalia fu uccisa con un colpo di pistola alla schiena. Quale fu la reazione del Papa? Non ci si poteva certo aspettare che mettesse da parte la diplomazia e dicesse: “Ve l’avevo detto che l’Islam è violento”. Avrebbe comunque potuto mantenere la calma, visto che tradizionalmente il Papa non chiede mai scusa. Invece, preferì agire come un dhimmi e chiese scusa ai musulmani.

In questo modo, confermò al mondo che la violenza era stata provocata dalle sue dichiarazioni, non dai musulmani infuriati che la perpetrarono. Quando il Papa chiese scusa, i musulmani smisero di insorgere. L’Islam aveva raggiunto il suo obiettivo: il Papa riconobbe che aveva offeso l’Islam e che aveva provocato gli episodi di violenza contro i cristiani; non l’avrebbe più fatto.

La Jihad funziona così: lentamente, passo dopo passo, capi di stato, leader di opinione, accademici, giornalisti, organizzazioni ed infine la popolazione in generale sono sottomessi (non dimentichiamo che Islam in arabo significa “sottomissione”) e costretti ad attribuirsi la responsabilità degli attacchi islamici perpetrati intenzionalmente contro di loro.

Molto presto, la gente memorizza il messaggio e ogni attacco genera il dibattito previsto: “Cosa avremo mai fatto per provocarlo? Probabilmente è colpa nostra per via dell’invasione dell’Iraq o dell’Afghanistan, per aver appoggiato lo stato di Israele, per le crociate, la discriminazione, l’islamofobia o per la povertà che noi abbiamo creato”.
L’Islam non si prende mai le proprie responsabilità poiché è una religione pacifista, solo alcuni (milioni?) di estremisti l’hanno frainteso.

Ora mettiamoci nei panni di un comandante militare intento ad assumere il comando di una nazione. In seguito ad ogni attacco, le vittime si attribuiscono la responsabilità dell’aggressione, conducono indagini per scoprire chi di loro è il colpevole e, invece di attaccare il vero responsabile, attaccano il proprio governo, le istituzioni del paese o una qualsiasi altra figura. È dunque impossibile che suddetto comandante perda, continuerà ad attaccare incessantemente e incolperà le vittime fino ad ottenere la loro resa.

È chiaro adesso l’enorme potere della Jihad? Non può essere sconfitta con armi nucleari, bombe intelligenti o bombardieri invisibili. Non importa il numero di missili a guida laser o di droni a disposizione, nemmeno il livello di preparazione dell’esercito: è tutto inutile se si ha paura di riconoscere chi sia il vero nemico. La Jihad non può essere sconfitta con la forza, è troppo potente; continuare a pensarci è inutile, perché non sarà l’esercito a salvarci da essa.
L’unica cosa che ci salverà dalla Jihad è la verità, e:

La verità non esiste senza il coraggio.



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