La dhimmitudine
era un’istituzione esclusivamente islamica che definiva una classe speciale di
cittadini. Si trattava della posizione subordinata di un popolo sottomesso al
dominio islamico nelle sue proprie terre. Questa situazione si verificò in
tutto il mondo islamico fino alla sua conquista da parte delle nazioni
occidentali (cristiane). Sfortunatamente, la condizione di dhimmi non è solo
una mera istituzione, ma un tipo di mentalità sottomessa simile a quella delle
vittime di bullismo e minacce. I profili dominanti sanno perfettamente che
imporre una predisposizione mentale di questo tipo alle loro vittime è
fondamentale per poterle tenere sotto totale controllo senza eccessive
complicazioni.
Molti di noi siamo
testimoni di tragici casi di donne vittime per anni di violenze fisiche e
psicologiche inflitte loro dai propri mariti. Spesso, queste giustificano le
azioni dell’aggressore e se ne attribuiscono la colpa (”Se non avessi servito
la cena così tardi, non mi avrebbe picchiata”).
I tiranni sono
maestri nell’impiegare questa strategia di sottomissione e proprio per questo è
arduo deporli. Maometto incluse questo metodo coercitivo nella sua dottrina in
modo da impedire che i dhimmi dei territori conquistati dall’Islam potessero
ribellarsi. E infatti, nessuna società conquistata dall’Islam si è potuta
liberare senza un aiuto esterno.
Lasciate che lo ripeta:
Storicamente, NESSUNA SOCIETÀ CONQUISTATA DALL’ISLAM SI È
POTUTA LIBERARE SENZA UN AIUTO ESTERNO.
M. Lal Goel,
professore emerito (hindu) in Scienze Politiche13, scrive a
proposito dell’istituzione islamica della dhimmitudine:
La dhimmitudine è lo stato di
paura e insicurezza in cui vivono gli infedeli, costretti ad accettare una
condizione di umiliazione. È caratterizzata dal fatto che la vittima stia dalla
parte dell’oppressore, assumendosi la colpa del comportamento ripugnante di
quest’ultimo. Il dhimmi perde quindi la capacità di ribellarsi poiché questa
nasce dal senso di ingiustizia. Odia sé stesso per elogiare il suo oppressore.
Per i dhimmi vigevano circa venti divieti: non potevano costruire luoghi di
culto, far suonare le campane delle chiese o uscire in processione, cavalcare
cavalli o cammelli (gli asini sì), sposare donne musulmane, indossare capi di
abbigliamento abbelliti da ornamenti, possedere schiavi musulmani o deporre
contro un musulmano in tribunale.
Dopo la Prima
Guerra Mondiale, quando l’Impero ottomano (turco) fu sconfitto, l’istituzione
della dhimmitudine fu apparentemente abolita. Sfortunatamente, essa perdura
come condizione mentale e aumenta costantemente a livello mondiale, dal momento
che la gente si sottomette spiritualmente ed emotivamente alla superiorità
islamica.
Per esempio, nel
2006, il Papa fece il suo noto discorso di Ratisbona, nel quale citò un
imperatore bizantino che disse che l’Islam aveva portato al mondo solamente
violenza. Il Papa non condivideva questo punto di vista, lo utilizzò
semplicemente come esempio in una questione teologica piuttosto astratta.
I musulmani di
tutto il mondo iniziarono immediatamente a protestare. In Inghilterra,
assalirono i frequentatori delle chiese, ma altrove le cose andarono molto
peggio. Gli attacchi ai cristiani da parte dei musulmani aumentarono e una
suora impegnata in attività umanitarie (per i musulmani) in Somalia fu uccisa
con un colpo di pistola alla schiena. Quale fu la reazione del Papa? Non ci si
poteva certo aspettare che mettesse da parte la diplomazia e dicesse: “Ve
l’avevo detto che l’Islam è violento”. Avrebbe comunque potuto mantenere la
calma, visto che tradizionalmente il Papa non chiede mai scusa. Invece, preferì
agire come un dhimmi e chiese scusa ai musulmani.
In questo modo,
confermò al mondo che la violenza era stata provocata dalle sue dichiarazioni,
non dai musulmani infuriati che la perpetrarono. Quando il Papa chiese scusa, i
musulmani smisero di insorgere. L’Islam aveva raggiunto il suo obiettivo: il
Papa riconobbe che aveva offeso l’Islam e che aveva provocato gli episodi di
violenza contro i cristiani; non l’avrebbe più fatto.
La Jihad funziona
così: lentamente, passo dopo passo, capi di stato, leader di opinione,
accademici, giornalisti, organizzazioni ed infine la popolazione in generale
sono sottomessi (non dimentichiamo che Islam in arabo significa
“sottomissione”) e costretti ad attribuirsi la responsabilità degli attacchi
islamici perpetrati intenzionalmente contro di loro.
Molto presto, la
gente memorizza il messaggio e ogni attacco genera il dibattito previsto: “Cosa
avremo mai fatto per provocarlo? Probabilmente è colpa nostra per via
dell’invasione dell’Iraq o dell’Afghanistan, per aver appoggiato lo stato di
Israele, per le crociate, la discriminazione, l’islamofobia o per la povertà
che noi abbiamo creato”.
L’Islam non si prende mai le proprie responsabilità
poiché è una religione pacifista, solo alcuni (milioni?) di estremisti l’hanno
frainteso.
Ora mettiamoci
nei panni di un comandante militare intento ad assumere il comando di una
nazione. In seguito ad ogni attacco, le vittime si attribuiscono la
responsabilità dell’aggressione, conducono indagini per scoprire chi di loro è
il colpevole e, invece di attaccare il vero responsabile, attaccano il proprio
governo, le istituzioni del paese o una qualsiasi altra figura. È dunque
impossibile che suddetto comandante perda, continuerà ad attaccare
incessantemente e incolperà le vittime fino ad ottenere la loro resa.
È chiaro adesso
l’enorme potere della Jihad? Non può essere
sconfitta con armi nucleari, bombe intelligenti o bombardieri invisibili. Non
importa il numero di missili a guida laser o di droni a disposizione, nemmeno
il livello di preparazione dell’esercito: è tutto inutile se si ha paura di
riconoscere chi sia il vero nemico. La Jihad non può essere sconfitta con la
forza, è troppo potente; continuare a pensarci è inutile, perché non sarà
l’esercito a salvarci da essa.
L’unica cosa che ci salverà dalla
Jihad è la verità, e:
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